giovedì 19 dicembre 2013

PERCHE' IL "TUSCANIA" E' IL PRIMO REPARTO PARACADUTISTI


La storia di quello che è oggi 1° Reggimento Carabinieri Paracadutisti “Tuscania”  inizia in una di quelle diatribe tipicamente italiane. Nella seconda metà degli anni trenta gli stati maggiori delle più potenti nazioni dell’epoca cercavano di organizzare reparti di truppe paracadutiste che rispecchiassero per dotazioni, armi e dottrine di impiego i nuovi concetti di guerra di movimento, fatta di velocità ed audacia. In Italia, nonostante il grande contributo dato alla tecnica lancistica dal Generale Alessandro Guidoni (a cui è intitolata la città e l’aeroporto di Guidonia) e dal capitano Prospero Freri, lo Stato Maggiore della Regia Aeronautica e del Regio Esercito discutevano tra di loro per decidere chi avrebbe avuto l’onore di assumere in carico un reparto paracadutista!

A risolvere il problema fu Italo Balbo, sicuramente una delle figure più interessanti ed affascinanti degli anni precedenti la 2° Guerra Mondiale, che secondo il suo modo di fare risoluto e pragmatico superò la diatriba di Palazzo  costituendo di sua iniziativa, nel 1938 in Libia, il 1° Reggimento “Fanti dell’Aria“, composto da truppe di nazionalità libica oltre a ufficiali e sottufficiali dell’esercito e dell’aeronautica.
Nello stesso anno, probabilmente spronato proprio dall’intraprendenza quasi irrispettosa di Italo Balbo, il Ministero della Guerra autorizzò finalmente la fondazione della Regia Scuola Paracadutisti di Tarquinia dove, a partire dai primi mesi del 1940, incominciarono ad addestrarsi i volontari provenienti praticamente da tutte le armi. Il comando della Scuola venne affidato ad un bersagliere, il Colonnello pilota paracadutista Giuseppe Baudoin de Gillette   una mitica figura di uomo, di soldato e di organizzatore - che di fatto è il padre spirituale di tutti i paracadutisti italiani.

Contemporaneamente il Generale Riccardo Moizo, Comandante Generale dei Carabinieri Reali, intuì che un reparto speciale come i paracadutisti aveva necessità di essere affiancato da un altrettanto speciale reparto di polizia militare e così riuscì a concentrare nella caserma Podgora di Roma circa 400 volontari costituiti da carabinieri di tutti i gradi e provenienti da varie specialità dell'Arma
Il 1° luglio del 1940 venne così ufficialmente costituito, al comando del maggiore Bruto Bixio Bersanetti il Battaglione Carabinieri Reali Paracadutisti – di fatto il primo reparto paracadutista italiano  -  basato su tre compagnie, con la funzione di affiancare le nascenti divisioni di paracadutisti del Regio Esercito con un reparto di Polizia Militare animato dallo stesso particolare temperamento.


Le nascenti Grandi Unità del Regio Esercito, come la Folgore, erano state infatti concepite per condurre rapide invasioni di vasta portata, come quella mai realizzata dell’isola di Malta e di conseguenza era indispensabile poter disporre di un reparto di polizia militare altrettanto deciso e risoluto  che fosse in grado di gestire la legalità sin dalle fasi critiche immediatamente successive all’invasione stessa.
Come avvenne per i loro cugini della Folgore anche i Reali Carabinieri Paracadutisti ebbero però una sorte diversa da ciò per cui erano stati costituiti e per cui si erano addestrati.
Nato come reparto di polizia militare d’élite venne infatti speso per un’azione di guerra più adatta ad un reparto di pionieri d’arresto che a soldati addestrati a fare della velocità e dell’intraprendenza operativa la loro vera forza. I carabinieri paracadutisti erano infatti dei veri atleti, equipaggiati con armi leggere come il Moschetto Automatico Beretta calibro 9 e bombe a mano d’assalto, addestrati a combattimenti ravvicinati ed in ambienti chiusi come quelli urbani e boschivi e non certo alla costituzione di capisaldi d’arresto su vaste aree aperte.
A meno di un anno dalla sua costituzione, per un caso imprevedibile del destino, il Battaglione iniziò a scrivere la sua breve e gloriosa pagina di storia e, come accadrà un anno dopo per i cugini della Folgore, in una situazione totalmente diversa da quella per cui erano stati costituiti e per la quale si erano addestrati.
L’8 di giugno 1941 il Battaglione, passato al comando del maggiore Edoardo Alessi, ricevette  l’ordine inaspettato di trasferirsi in tempi brevissimi in Africa Settentrionale con compiti non ben definiti.
I carabinieri accolsero questa notizia con entusiasmo quasi fosse un regalo per la Festa dell’Arma, che cade il 5 di giugno. In realtà questa inaspettata decisione venne probabilmente presa per punire in modo indiretto alcuni ufficiali che avevano avuto un atteggiamento  irrispettoso nei confronti del regime. In particolare l'O.V.R.A. la polizia politica fascista aveva già segnalato che nel battaglione vi erano diffusi sentimenti antifascisti, sospetto che venne avvalorato da una comica imitazione di Mussolini da parte di un sottotenente dei carabinieri paracadutisti di nome Ragnini che proprio il 5 giugno, durante il pranzo per commemorare la Festa dell’Arma aveva suscitato l'ilarità di tutti gli ufficiali del reparto presenti e degli altri invitati, compreso lo stesso comandante della Scuola di Tarquinia, il Colonnello Baudoin.
Fatti quindi i bagagli di gran carriera e dopo essere sbarcato a Tripoli il Battaglione si trasferì in pieno agosto, con una lunga marcia a piedi, a Suani ben Adencon nel deserto di Zavia, con il compito di prevenire e neutralizzare le attività di un reparto di incursori inglesi che, come si saprà a guerra finita, era il Popski's Private Army  un'unità irregolare inserita nel Long Range Desert Group delle Forze Armate Britanniche creata e comandata da un coinvolgente ed estroso avventuriero di nome Vladimir Peniakoff - detto Popski - un belga di origini russe che fu naturalizzato inglese solo a guerra finita proprio per le coraggiose azioni dei commandos del suo esercito privato ai danni di molti obiettivi militari italiani. Popsky, dotato di grande carisma ed amante dell’avventura, aveva costituito un manipolo di fedelissimi ed audaci incursori in compagnia dei quali si muoveva nel deserto con relativa facilità utilizzando speciali camionette a quattro ruote motrici, modificate secondo le direttive dello stesso Peniakoff ed armate di  mitragliatrici pesanti Browing da mezzo pollice. Con questi mezzi effettuava veloci puntate a lungo raggio sabotando le linee di comunicazione e gli aeroporti italiani, compreso quello principale di Castel Benito dove, durante un’incursione, venne intercettato proprio dai reali carabinieri paracadutisti che nel combattimento ebbero la loro prima vittima.

Per puro caso i carabinieri paracadutisti  iniziarono così la loro attività bellica con il compito di interdizione ed antiguerriglia, che è una delle funzioni più importanti dell’attuale “Tuscania”.
Dopo i primi positivi risultati contro le incursioni dei commandos di Popsky il battaglione venne messo alle dipendenze del Corpo d'Armata di Manovra (C.A.M.) con l'ordine di trasferirsi nel Gebel Cirenaico, dove c’era la sede del Comando Superiore Forze Armate dell’Africa Settentrionale, con il compito di svolgere attività di interdizione lungo un tratto di costa contro le ripetute incursioni dei commandos inglesi, alcuni dei quali vennero presi prigionieri dai carabinieri di Alessi, insieme a numerosi guerriglieri libici.
L’8 di dicembre del 1941 l’Afrika Korps fu costretta ad una rapida ed imprevista ritirata sotto la pressione delle truppe corazzate dell’8° Armata del generale inglese Claude Auchinleck, mentre dalle strade laterali e secondarie della via Balbia i temibili incursori motorizzati inglesi facevano rapide puntate, attaccando i convogli italo-tedeschi in ritirata.
Ancora una volta fu richiesto l’intervento dei carabinieri paracadutisti  ma con un ordine diretto e personale del Feld Maresciallo Erwin Rommel, Comandante in capo dell’Afrika Korps, al maggiore Edoardo Alessi.
Il 14 dicembre l’intero Battaglione, costituito da circa 400 uomini, si schierò sulla via Balbia presso il bivio di Eluet El Asel per costituire un caposaldo per una difesa ad oltranza dell’arteria stradale e rallentare così l’avanzata inglese permettendo alle truppe italo tedesche dell’Africa-Korps di completare il loro deflusso e potersi quindi riorganizzare per una controffensiva.
Il compito affidato al maggiore Alessi aveva già qualche cosa di estremo nell’ordine: resistere ad oltranza, con armi leggere, a truppe motorizzate e corazzate!
Il reparto venne pertanto rinforzato con 6 cannoni controcarro da 47/32, gli stessi cannoni che la Folgore userà ad El Alamein, trainati e movimentati a forza di gambe e di braccia! I cannoni ed i cannonieri provenivano dalla 9° Compagnia dell’8° Bersaglieri al comando del tenente Alberto Coglitore il cui plotone a sua volta fu rinforzato da un piccolo drappello di venti paracadutisti libici dei Fanti dell’Aria. Il reparto disponeva però di circa 70 armi automatiche tra fucili mitragliatori e mitragliatrici Breda, era quindi dotato di un potere di fuoco che, se confrontato con il normale armamento di un reparto di fanteria italiano dell’epoca, costituiva un fatto straordinario. Il distaccamento disponeva inoltre di bombe a mano controcarro chiamate granate Pazzaglia, il cui uso richiedeva una non indifferente dote di vera follia perché veniva usata affrontando fisicamente il mezzo blindato. Questa è una corrispondenza dell’epoca che ne descrive l’uso: “Ci vuole arte e fegato per usare le Pazzaglia. Bisogna correre verso il tank sferragliante, che distribuisce morte tutt’intorno, evitare di finire sotto i suoi cingoli, lanciare la bomba sul vano motore e buttarsi a terra. Quando l'ordigno penetra dentro il carro, succede l'ira di Dio: le fiamme divampano, il liquido idraulico schizza rovente per ogni dove e le munizioni saltano. Se ci arrivi!!!”.

La battaglia di Eluet El Asel inizia il 19 dicembre quando una grossa pattuglia esplorante e di presa contatto della 5a Brigata della IV Divisione di Fanteria Indiana, costituito da cinque camionette cingolate, iniziò ad avanzare verso il caposaldo italiano dei carabinieri paracadutisti per saggiarne la consistenza ma venne praticamente decimata con pochi colpi di cannone dai bersaglieri del tenente Coglitore.
Subito dopo, come da tradizione britannica, gli inglesi attivarono un pesante fuoco di artiglieria per coprire l’avanzata di due compagnie che tentavano un ampio movimento a tenaglia per accerchiare il caposaldo italiano. Le truppe inglesi non avevano però fatto i conti con l’audacia e l’intraprendenza dei carabinieri paracadutisti che incuranti dei tiri di artiglieria e coperti dal terreno sassoso avanzarono a loro volta incontro agli inglesi intercettando la manovra di progressione ed investendoli con un violento ed imprevisto contrattacco ed impegnandoli anche in combattimenti ravvicinati condotti con raffiche di MAB e lanci di bombe a mano, capovolgendo così la situazione e trasformando gli inglesi da attaccanti in attaccati.
La ritirata degli inglesi permise al maggiore Alessi di iniziare la manovra di sganciamento lasciando sul posto 40 carabinieri paracadutisti al comando del tenente Enrico Mollo, con l’ordine di tenere il caposaldo sino alla notte per ingannare gli inglesi, simulando la presenza dell’intero reparto; così fu fatto, ma di questi eroici carabinieri paracadutisti solo 23 riuscirono a salvarsi e quantunque isolati ed appiedati rifiutarono di arrendersi. Mentre si trasferivano a piedi verso il villaggio agricolo Luigi Di Savoia aggregarono con loro dei soldati sbandati e con questi al seguito, non essendo riusciti a congiungersi con il battaglione,  si diedero alla macchia per quasi due mesi, sino alla controffensiva di Rommel.  In questo lasso di tempo, divisi in piccoli gruppi e sostenuti dalla popolazione civile italiana rimasta nei territori occupati dagli inglesi, questi carabinieri  veramente indomiti, compirono azioni di guerriglia e di protezione dei coloni italiani che erano continuamente attaccati da bande di guerriglieri libici che cercavano di impossessarsi dei beni delle fattorie italiane, attentando anche alla vita degli stessi coloni e dei loro lavoratori.
La colonna del maggiore Alessi, che si era invece mossa su autocarri e precedeva di quasi due giorni i movimenti del reparto appiedato del tenente Mollo, fu più volte bloccata presso Lamluda da alcuni posti di blocco volanti attivati dai veloci reparti motorizzati inglesi che vennero superati dopo furiosi combattimenti.
Del 1° Battaglione
Dopo la vittoriosa controffensiva di Rommel i superstiti del 1°  Battaglione  Reali Carabinieri Paracadutisti furono rimpatriati all’inizio del 1942 ed il 6 marzo dello stesso anno parteciparono alla triste cerimonia dello scioglimento ufficiale del reparto nella sede della Legione Territoriale di Roma.
C’è in questa bellissima storia di uomini, di soldati e di coraggio una domanda a cui io personalmente non so dare risposta: perché l’eroismo ed il sacrificio di questi Carabinieri venne ufficialmente riconosciuto solo dopo molti anni, quando il 14 giugno del 1964 fu consegnata all’Arma dei Carabinieri la Medaglia d’Argento alla Bandiera di quello che era stato il 1° Battaglione Reali Carabinieri Paracadutisti insieme a 5 Medaglie d’Argento al VM,  6 Medaglie di Bronzo e 4 croci di Guerra.

Erano ormai passati 23 anni dall’epica Battaglia di Eluet El Asel!
Siamo stati silenziosi per molto tempo, ma sempre attivi.
Da oggi questo blog è strettamente collegato alla nostra fanpage su FaceBook ed al sito www.professionedifesa.it
E' il caso di dirlo: ne vedremo di cose, ne vedremo!

mercoledì 2 maggio 2012

LEGIO PATRIA NOSTRA




 

LEGIO PATRIA NOSTRA
« Vecchio mio, la Legione è la Legione! Vedi, qui è tutto falso. Falso è il tuo nome, anche se io lo ignoro, la tua storia, la tua vita. Forse io stesso sono falso. Se vuoi, anche la storia della Legione è falsa. Ma vedi, vecchio mio, c'è ancora una cosa... una cosa... Cosa volevo dire? Si, c'è dell'umanità.»
(Giuseppe Bottai, Legione è il mio nome)

La Francia ha ricordato con grande risalto il 30 aprile la festa della Légion Ètrangère perché niente è più francese e patriottico di questo Reparto di uomini senza nome e senza patria.
La data coincide, come spesso accade nella storia militare, con una sconfitta sul campo di battaglia perché la gloria ed il valore degli uomini prescindono dal risultato e dalla bandiera che gli adombra.
Il 30 aprile del 1863 nel villaggio messicano di Camaron de Tejada la 3ª compagnia del 1º Reggimento Straniero, comandata dal capitano Jean Danjou, mentre scortava un carico d’oro fu attaccata dai patrioti messicani, guidati dal colonnello Francisco de Paula Milan. I Legionari, inferiori per numero e nell’impossibilità di ricevere aiuti e rinforzi, rifiutarono la resa e chiusi in un quadrato sempre più piccolo furono letteralmente massacrati mentre ormai si difendevano all’arma bianca.
I messicani vinsero la battaglia di Camaron de Tejada solo perché in numero soverchiante ma non ne conquistarono l’onore che andò tutto ai coraggiosi Legionari che ancora ne tramandano con vivido orgoglio il ricordo.
Quello che fu un giorno di gloria è ricordato in Francia come la festa della Legione Straniera e la cerimonia della battaglia di Camerone si celebra ogni anno con grande solennità ad Aubagne. Durante la ricorrenza un Legionario scelto per il suo valore porta la mano di legno del capitano Danjou, l’unica vera grande reliquia di questo reparto d’elite che dal 1831 ha combattuto, e continua a farlo, dovunque la Francia ritenga necessario difendere i suoi interessi con le armi.
Nella Legione, sin dalla sua fondazione, hanno prestato servizio, soprattutto negli anni del dopoguerra, circa 60 mila italiani e molti di loro hanno eroicamente scritto la storia di questo reparto. Nonostante la sue ferrea disciplina la Legione Straniera è un istituzione “democratica” dove conta solo il valore dell’individuo che prescinde dalle origini e dalle motivazioni che lo hanno portato a varcare la soglia del centro di arruolamento spogliandosi del suo passato. In tutta la storia solo due Legionari hanno scalato la gerarchia militare sino ai massimi livelli indossando i gradi di generale, uno di questi è l’Italiano Vittorio Tresti che si congedò con il grado di generale di Divisione.
Per una sola volta, a quanto ci risulta, la Legione Straniera si è scontrata contro un reparto italiano. Fu il peggior incontro che i Legionari del Reggimento “Francia Libera” che combatteva tra le file inglesi in Africa Settentrionale potevano auspicare di fare.
La notte tra il 23 e il 24 ottobre del 1942 ad El Alamein il 1° ed il 2° Battaglione della Legione Straniera appartenenti alla Divisione “Francesi Liberi” appoggiati da un Reggimento inglese dei Queen’s e sostenuto da un gran numero di autoblindo e bren-carrier attaccarono il settore più meridionale dello schieramento italo-tedesco nei pressi di Munaquir el Daba difeso da V Battaglione della Folgore.
Oltre 1300 uomini, sostenuti da un imponente fuoco di artiglieria si aprirono un varco tra i circa 400 paracadutisti che difendevano la posizione. L’attacco fu così irruento che gli artiglieri tedeschi, che dovevano proteggere l’avamposto, si ritirarono lasciando gli italiani al loro destino.
Il Comando del Battaglione decise allora di ricorrere alle truppe di rincalzo della Folgore: poco più di sessanta uomini normalmente dediti alle cucine e alle attività logistiche dell’avamposto ai quali si aggiunse spontaneamente un plotone di Artieri Paracadutisti che nonostante il tiro delle artiglierie inglesi si presentarono inquadrati e sull’attenti a dar man forte ad un simile improbabile reparto di rincalzo. Il comandante del plotone, il Sotto Tenente Di Gennaro, chiese formalmente al Comandante del Battaglione, il Ten. Colonnello Izzo stupito e commosso – come lui stesso scriverà sulla Relazione Ufficiale del Combattimento di Munaquir el Daba custodita negli archivi dello SME –  «che il suo plotone chiedeva l’onore di partecipare al combattimento.»
Questo pugno di uomini che si battevano nella proporzione di uno contro quindici riuscì non solo a fermare l’irruenta avanzata dei legionari ma a sferrare un contrattacco che sgominò le linee nemiche che si ritirarono scompostamente.
Al termine del combattimento il reparto di rincalzo composto da poco più di 90 Paracadutisti aveva perso oltre sessanta dei suoi componenti. I Legionari avevano lasciato sul campo oltre 300 morti abbandonati tra i resti fumanti dei numerosi blindo, distrutti con il lancio di bombe a mano e di bottiglie incendiarie
Questo accadde quando la Legione Straniera si scontrò con la Folgore. Era la notte e l’alba del 24 ottobre del 1942 e fu una battaglia tra Primi.



Scrisse di queste gesta Renato Migliavacca che ha dedicato la sua vita a tramandare la Storia dei  Fratelli della Folgore:
«I sopravvissuti hanno continuato a ricordare nel cuore l'immagine di quel pezzetto d’Italia, il loro,  che tutti insieme costruirono nel deserto egiziano; una comunità dove i pezzi grossi erano primi nell’affrontare rischi e assumersi responsabilità, dove la solidarietà  reciproca non  aveva confini.  Perché questo fu per loro la Folgore: una piccola, meravigliosa Patria per la quale, valeva davvero la pena di vivere o di morire.»
 


                                          





venerdì 27 aprile 2012

DAL KERALA: PALLE, BALLE E RUMORS



La balistica è un settore  della tecnica e della scienza tra i più complessi, ma dopo la perizia degli esperti  del tribunale del Kerala è diventata un argomento da bar sport.
I nostri Fucilieri di Marina, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, secondo le conclusioni del Forensic Sciences Laboratory , la scientifica indiana, il 15 febbraio scorso avrebbero sparato con "due Beretta Arx 160" e ucciso i due pescatori indiani, gli unici svegli in coperta sul peschereccio St. Anthony al largo della costa indiana: durante la presunta sparatoria il comandante e il resto dell’equipaggio dormivano alla grande sottocoperta, ma non dormivano abbastanza per vedere la nave da cui avrebbero visto partire i colpi.
La “scientifica” indiana,  con la stessa approssimata  perizia con cui le autorità indiane applicano e riconoscono il Diritto Internazionale e della Navigazione, esaminando i proiettili rinvenuti nei corpi dei due poveri pescatori avrebbe determinato che sono stati sparati da bordo della Enrica Lexie con due Beretta ARX 160.
Purtroppo, per la  credibilità di questa dichiarazione, non risulta che questi fucili fossero a bordo della Enrica Lexie ed anche un allievo perito balistico sa che un proiettile senza l’arma che l’ha sparato non è in grado di estrinsecare tutte le informazioni che racchiude, ma il Tribunale del Kerala sembra non dare importanza a questo aspetto e con le sue esternazioni continua ad alimentare dubbi su dubbi screditando se stesso e l’intera India.
Per capire meglio il significato di una simile asserzione si deve ricorrere ad un percorso di fantasia privo di logica, come immaginare di trovare una sciarpa per strada e dichiarare: questa sciarpa è di “Laura” (o di chiunque altro)  perché probabilmente esiste da qualche parte del mondo una “Laura” con una simile sciarpa e se questa “Laura” esiste è certo che l’ha abbandonata lei!

L’ARX 160 è un fucile automatico “di nuova generazione” ancora in fase di valutazione dalle nostre FA e da alcune altre nazioni. È prodotto dalla Beretta a livelli minimi per mettere a punto le linee di produzione  e soprattutto per testare l’arma in impieghi operativi, come per esempio il teatro Afghano, dove il Reggimento San Marco ha utilizzato negli scorsi mesi un lotto di 37 esemplari di questo fucile. L’ARX non è un fucile di precisione, come per esempio il Sako o l’Accuracy, è un fucile d’assalto in polimeri destinato alla produzione di massa e che dovrebbe sostituire il 59/70 nelle nostre FA. Comunque è certo che quel fucile non era bordo della motonave, ed infatti non è stato trovato durante la perquisizione, dimostrando con la sua assenza un’altra manovra di depistaggio da parte delle autorità indiane sempre più arrovellate nel tentativo di salvare la faccia in una situazione che diventa sempre più grottesca e che ha minato a livello internazionale l’immagine di questa potente nazione, desiderosa di ritagliarsi un posto tra le grandi potenze del pianeta, ma in realtà ancorata a concetti di giustizia tribale.

Oltre alle notizie sulle ridicole perizie balistiche in Kerala girano altre voci, seppure passate da bocca ad orecchio e lontane dalla platealità dei media. Sono state raccolte in Italia all’interno di un’inaspettata comunità di cittadini del Kerala, informati e culturalmente preparati e che hanno contatti pressoché quotidiani con la madre patria e che lontani dalle telecamere e dai microfoni dichiarano: in Kerala le forze dell’ordine, anche quelle dedite al controllo della pesca e che continuamente scambiano colpi di arma da fuoco con i vicini cingalesi, sono spesso dedite ad attività illegali, come chiedere il pizzo a chi a dir loro infrange la loro legge. Gli stessi rumors riferiscono che in Kerala sono in molti ad essere convinti che i due poveri pescatori indiani siano stati uccisi da un guardiacoste indiano. Forse perché l’imbarcazione non aveva aderito alle loro richieste o forse perché il St Anthony era stato scambiato per un peschereccio cingalese o forse perché si è trovato casualmente coinvolto in uno scontro  a fuoco, ma comunque siano andate le cose sono stati uccisi dagli stessi indiani.
Negli ultimi anni più di 500 pescatori indiani hanno perso la vita in quel braccio di mare durante scontri a fuoco tra lo Sri Lanka e l’India che battagliano sui diritti alla pesca e, pur non avendo notizie ufficiali dal Governo di Colombo, è probabile che anche numerosi cingalesi siano morti sotto il tiro dei guardiacoste indiani.
Il problema per riportare a casa i nostri fucilieri è quindi ancora quello di trovare una via per salvare la faccia ad una nazione che nonostante il suo incredibile aumento del PIL, un esercito di tutto rispetto e le casse piene di dollari è ancora un paese ben lontano dagli elementi fondanti delle nazioni democratiche occidentali.
Anche a noi piacerebbe pensare ad un’attività di special ops da parte dei nostri incursori per liberare i nostri fieri e dignitosi Fucilieri, ma questo non è attuabile, pur avendo tra i nostri Reparti e chi li comanda elementi in grado di farlo. Se qualcuno dubitasse di questa mia asserzione lo invito a rileggersi la storia dei nostri Reparti speciali durante le due guerre mondiali, storia da cui si potrebbero ricavare i copioni per innumerevoli action movie basati su storie vere.
La nostra bistrattata Italia è strutturata  – per fortuna – su concetti di civiltà e di cultura che privilegiano il confronto e il rispetto del Diritto anche quando è costretta a trattare  con dei banditi di strada (o di mare) che antepongono l’arroganza della violenza ai concetti basilari della Civiltà.
L’Italia ha abbandonato ormai da millenni, se mai l’abbia mai applicata, la legge del taglione che ha sostituito prima con il diritto sviluppato dalla Civiltà Romana e poi durante il Rinascimento, con quei concetti di Diritto che sono stati assunti dal mondo intero come fondanti e irrinunciabili.
A quanto pare per molte altre nazioni, come per esempio l’India, non è ancora così e si comportano con la volgarità di un ignorante diventato ricco per caso.
In questo scenario va giudicato il comportamento del nostro Governo, nonostante alcuni errori commessi in questa vicenda da un pressapochismo che pervade la  politica e l’opinione pubblica nostrana.
In questo contesto il comportamento dei nostri due Fucilieri,  pur nella sventura brilla come esempio di stile e di civiltà.
Ricordiamocelo quando torneranno in Italia, tramandandone la fierezza e la dignità dei giusti alle generazioni future. (at)
Per saperne di più:
http://www.linkiesta.it/maro-india-falsita

martedì 7 febbraio 2012

CRONACHE DI UNA GUERRA ANNUNCIATA


Anche sui nostri media da qualche giorno è possibile avere notizie su questa azione di guerra prossima ventura il cui countdown è ormai iniziato e che potrebbe marcare l’evolversi dell’intero XXI secolo.
Negli ultimi giorni un crescendo di dichiarazioni rilasciate da figure istituzionali  degli Stati uniti e di Israele hanno aperto definitivamente il sipario su questo conflitto più prossimo che possibile.
Ha iniziato il Capo di Stato Maggiore israeliano, Benny Gantz, che ha definito il 2012 “l’anno dell’Iran”. Lo scorso giovedì il capo dell’intelligence militare israeliana, Aviv Kochavi, ha detto che l’Iran “ha già materiale fissile sufficiente per costruire quattro bombe atomiche”.
Il giorno stesso Moshe Ya’alon, vice primo ministro ed ex capo di stato maggiore, annunciava che “Israele può distruggere tutte le strutture nucleari iraniane”.
Come risposta dagli USA il Segretario alla Difesa americano Leon Panetta ha rilasciato a David Ignatius, famoso giornalista del Washington Post, un’intervista in cui espone chiaramente che gli Stati Uniti temono che Israele possa attaccare i siti nucleari iraniani in “aprile, maggio o giugno. L’aviazione di Gerusalemme penserebbe di colpire i bersagli iraniani per 4 o 5 giorni” omettendo volutamente la precisazione: a prescindere dalle posizioni a riguardo del governo americano.
Perché la Casa Bianca è cosciente della determinazione di Israele e sta incominciando  a rilasciare dichiarazioni che per quanto edulcorate non cambiano la gravità di questii venti di guerra.
Dal 2005, quando l’Iran organizzò una conferenza internazionale sul negazionismo dell’Olocausto minacciando apertamente di distruzione nucleare lo stato di Israele, sono stati in molti ad ipotizzare un possibile attacco aereo israeliano contro le installazioni nucleari iraniane, come era già avvenuto nel giugno del 1981 con l’organizzazione di uno spettacolare e complesso raids aereo contro il sito nucleare iracheno Tammuz, a Yuwaitah.
Ma i siti nucleari iraniani di Qom, Bushehr, Fordow e Isfahan sono molto più lontani dell’Iraq e sono tutti sotterranei e costruiti a notevole distanza uno dall’altro proprio per disperdere la forza d’urto di un eventuale attacco. Allo stato attuale delle cose è ormai  chiaro che il problema non è più se ma quando questo attacco avverrà e già si incominciano a fare ipotesi sulla data in cui Israele effettuerà il suo strike definitivo contro le ambizioni nucleari di Teheran, animate da un odio antisemita alimentato dagli innumerevoli scontri e guerre che Israele ha sempre vinto umiliando e smentendo continuamente la roboante sicumera dei versetti coranici: “Ogni volta che i giudei accendono il fuoco di guerra, Allah lo spegne.” (Corano 5,64)
Nei più importanti quotidiani americani come il New York Times ed il Washinton Post analisti ed esperti della storia recente di Israele e del medio oriente in genere hanno esaminato con grande attenzione le “open source” sulla questione, ovvero le più recenti dichiarazioni pubbliche dello Stato Maggiore e del Governo di Tel Aviv di Benjamin Netanyahu, ma anche la posizione remissiva degli Stati uniti di fronte a questa eventualità.
Negli USA sono ormai in molti, anche tra i democratici, ad essere convinti che Obama non è Reagan e che il peso del suo veto per una simile azione militare non farebbe neppure vacillare Israele da questa decisione che sembrerebbe già in fase avanzata.
I Servizi israeliani seguono da sempre l’evolversi della situazione iraniana, ma con maggiore attenzione da quando l’Ayatollah Komeini iniziò a sviluppare la “rivoluzione islamica” e la politica del martirio in  nome di Allah sostituendosi all’Iraq nel ruolo di nemico numero uno dell’ebraismo.

Nel 1982 quando ormai il tentativo di invasione dell’Iran da parte delle armate irachene di Saddam Hussein si era impantanato nelle paludi di Shatt el Arab e lo stesso dittatore iracheno iniziava a ventilare una trattativa per salvare l’Iraq e se stesso da una sconfitta terminale, Khomeini si defilò da questa scappatoia diplomatica.  Con una raffinata abilità politica ma soprattutto con un cinismo incomprensibile per noi occidentali trasformò l’operazione militare, che aveva coagulato l’intero Iran in una guerra patriottica di difesa del territorio in quanto tale e non perché “parte” dell’Islam, in una grande guerra ideologica.
Il regime di Khomeini diede un affondo brutale all’esercito iracheno, ormai arroccato su posizioni non difendibili, preludio di una disfatta. Khomeini arruolò, o meglio, sottrasse alle famiglie decine di migliaia di bambini che con il simbolo del martirio, una fascia rossa sulla fronte, vennero usati per aprire campi minati facendoli saltare sulle mine o, imbottiti di esplosivo, istigati a lanciarsi sotto i cingoli dei carri iracheni o raggiungere in una disperata e folle corsa le postazioni di un nemico già sconfitto, per morire nella loro ingenuità infantile come "eroici martiri". 
Tutto questo non aveva una valenza strategica, era il modo per trasferire dal piano patriottico a quello religioso la guerra, piegando la volontà degli iraniani ed allargando la rivoluzione islamica verso occidente, oltre i confini dell'Iraq, sino a quelli israeliani. 
I bambini sopravvissuti alle battaglie quando rientravano tra le linee venivano accolti da un attore a cavallo travestito in guisa del profeta, che li precedeva verso il campo mentre i piccoli cantavano inni di guerra e di martirio. Sono nati così gli shaid-killer, i martiri assassini che hanno cambiato il modo di combattere dell’Islam, creando un’ideologia della morte che per raggiungere i suoi scopi politici utilizza uomini, donne, bambini e bambine come armi a perdere. Questo culto del martirio è ormai diffuso ed accettato nei territori palestinesi alimentato da un’intensa campagna di esaltazione e di mistificazione come quotidianamente è possibile vedere nelle televisioni e come viene insegnato nella scuola palestinese, sostenuta tra l'altro da fondi milionari della Comunità Europea, o nelle moschee dove gli Imam inneggiano all'eroismo del martire e alla distruzione di Israele.  L’Iran, tramite questa religione della morte, è così riuscita a portare la sua volontà di cancellare i giudei dalla faccia della terra sino ai confini con Israele che ha però assorbito e battuto anche questo nuovo tipo di terrorismo. Ma l’Iran non si è data per vinta, come più volte pubblicamente dichiarato da Ahmadinejad è ormai prossima ad avere le bombe atomiche necessarie per mettere  finalmente in atto la “soluzione finale” iniziata dai nazisti, creando però un po’ di confusione ideologica perché è proprio l’Iran la “patria” del negazionismo dell’Olocausto; ma questa discrepanza è comprensibile perché la cancellazione degli ebrei dalla faccia della terra è un privilegio che un integralista musulmano non può spartire con nessun infedele per quanto cinico, spietato e molto più efficiente sul piano dei risultati come la storia ci ha tristemente insegnato.

Da anni la situazione ai confini con Israele è relativamente calma, ma per un motivo ben preciso. L’Iran ha interesse a tenere
bassa la tensione, ha fornito armi sofisticate come missili a medio raggio a propellente solido, molto più sicuri e facili da manovrare rispetto a quelli a propellente liquido forniti in precedenza, sistemi di guerra elettronica e grandi quantità di razzi, armi e munizioni di ogni tipo. Quando sarà pronta “la bomba” Israele si troverà distratta ad affrontare un esercito di giovani e bambini shaid-killer plagiati dalle scuole, dalle moschee e dalla Tv palestinese, sostanzialmente piegati alla volontà dell’Iran che  non per caso è il più grande sostenitore della causa palestinese.  Ma oltre ai sahid-killer la Palestina è rafforzata da un rinnovato esercito di miliziani e terroristi equipaggiati e addestrati come mai lo sono stati in precedenza, preparati per vere azioni militari e non per atti di terrorismo uccidi e fuggi.
Israele si estende su una superficie più piccola di quella della Sicilia e non può difendersi sulla linea di confine, deve pertanto allargare il più possibile verso l’esterno la sue linee di difesa con azioni di interdizione aerea e, dove possibile come nella valle della Bekaa, con l'uso di reparti corazzati. Tanto meno può assorbire l’impatto e gli effetti di un attacco nucleare. L’unico modo che ha per difendersi da questa minaccia di olocausto nucleare è quello di bloccare la costruzione delle bombe iraniane ed è ormai altrettanto certo che lo farà anche senza il consenso e l’appoggio politico e militare degli USA di Obama, ormai già in piena sbronza preelettorale.
Secondo fonti di intelligence occidentali e israeliane l’attività di arricchimento dell’uranio iraniano è quasi alla metà del suo ciclo di produzione e permetterà la costruzione di almeno 4 bombe entro l’anno ed il cui vettore è già stato collaudato più volte e con successo. Le ventilate sanzioni dell’ONU verso l’Iran non saranno attive che nel cuore dell’estate, se mai lo saranno vista la recente posizione di Cina e Russia nella questione siriana. Sarebbero comunque sanzioni tardive e soprattutto inutili perché più volte la “rivoluzione mondiale islamica” dei discepoli di Komheini ha dimostrato di infischiarsene alla grande di ciò che pensa il resto del mondo sulle proprie scelte, alla stessa misura in cui un lestofante irride ai cartelli che sugli autobus romani mettono in guardia i turisti dall’attività dei borseggiatori.
Lo scenario allo stato attuale è pertanto il seguente: l’Iran attacca Israele ed il fragile equilibrio su cui si basa la pace mondiale evaporerà come una bolla di sapone innescando situazioni che nel migliore dei casi saranno drammatiche e si espanderanno per migliaia di chilometri e non mi riferisco solo agli effetti di fallout di un’esplosione nucleare. Se sarà invece Israele ad attaccare per prima idem come sopra.
Secondo il Segretario americano alla Difesa Leon Panetta entro aprile o maggio gli israeliani scateneranno un attacco aereo della durata di 4 o 5 giorni preceduto da lanci di missili. Rimane a mio avviso un dubbio. Per quanto l’aviazione israeliana sia probabilmente quella meglio organizzata ed addestrata a livello mondiale è comunque di dimensioni ridotte e non dispone di bombardieri strategici. Organizzare centinaia di missioni in pochi giorni con aerei come gli F16 e gli F15 a grandi distanze dalle loro basi, della durata di almeno 12 ore se non più e con la necessità di numerosi rifornimenti in volo praticamente anche nello spazio aereo iraniano, non è una cosa facile da organizzare e portare a termine.  L’aviazione militare e  la difesa aerea iraniana non sono come quelle siriane, egiziane o irachene ed i suoi comandanti, i  piloti ed i tecnici sono preparati ad una difesa aerea dei loro cieli.
Anche affidare l’attacco ai soli missili sembra un’ipotesi non credibile, perché per quanto molto precisi possono portare solo quantità ridotte di esplosivo convenzionale che farebbero una specie di solletico alla bramosia distruttiva iraniana. Ma se invece delle testate convenzionali usassero quelle “altre” testate che Israele ha ormai da molto tempo, sin da quando ne iniziò lo studio con i sudafricani con cui fece i primi esperimenti molti, ma molti anni fa?
C’è infine un’ultima possibilità: la caduta pilotata del regime iraniano temuto ma essenzialmente odiato da gran parte della gioventù, formatasi più sullo studio delle materie scientifiche che sul Corano.
Quattro mesi passano in fretta e sicuramente in questo lasso di tempo cambieranno molte cose.
(Antonello Tiracchia)

martedì 31 gennaio 2012

UNA RON SOTTO IL CIELO DI BAKWA


 Giuseppe Lami
Una notte all’addiaccio prima di una missione i militari la chiamano RON (Rest Of Night) la cui traduzione italiana – il resto della notte - sembrerebbe un verso poetico, penso a questo alle 2 di mattina del 3 agosto, ora afghana, mentre sono sdraiato supino su una brandina da campo e guardo il cielo che sovrasta il deserto intorno a Bakwa. Un cielo incredibilmente luminoso, come ormai in Italia non è più possibile vedere per l’inquinamento atmosferico e luminoso.
I ragazzi del 2° Plotone della XIV Compagnia Pantere del 186° Rgt. Paracadutisti dormono nelle brandine affiancate alla mia, oppure guardano il cielo, come me, solo i due gunner di turno sono realmente svegli, alla ralla, e controllano il loro settore di tiro con le camere termiche.
I due Lince ronfano sornioni, a bordo ci sono così tanti apparati che non è possibile spegnere il motore.
Ci sono 32 gradi di temperatura, non c’è umidità, solo una piacevole brezza leggera, distante dalla violenza di questa zona come lo sono le stelle.
Intorno a noi, ma lontani, sono disseminati secondo schemi precisi, almeno altri 10 VTLM Lince e altrettanti pick-up dell’Afghanistan National Army e alcuni altri dell’ANP, la polizia.
Sopra di noi c’è un Predator della nostra Aeronautica Militare, invisibile e silenzioso, che fa la sentinella con le sue diavolerie elettroniche. Con i binocoli per la visione notturna si vede chiaramente il suo raggio laser che sembra generato dalle stelle e che scansiona il terreno. È una visione inquietante anche se è il nostro angelo custode.
Resterà in volo tutta la notte e ci accompagnerà durante l’attività di search; a centinaia di chilometri di distanza ad Herat almeno 4 uomini pilotano ed analizzano la moltitudine di dati raccolti da questo strano aereo senza pilota e sono pronti a riferire al nostro TOC ogni minimo cambiamento della situazione tattica intorno a noi.
Alle 4.30 l’intero dispositivo si mette in moto, dividendosi in due gruppi. 

Giuseppe Lami


Gli scherzi e l’allegria della notte all’addiaccio non ci sono più. Tutto funziona secondo schemi collaudati.  Il mio dispositivo raggiunge, muovendosi velocemente in fuoristrada,  il nostro primo obiettivo, un compound  isolato. Lo scopo dell’operazione è raccogliere informazioni e individuare alcuni talebani che l’intelligence ritiene usino questi piccoli villaggi come base. In prossimità dell’obiettivo alcuni Lince si allargano a ventaglio ed in pochi minuti il piccolo complesso di case è, come si dice nel linguaggio militare, cinturato.
La grande distesa di questa valle è piatta come un biliardo, i tiratori scelti e gli uomini in ralla costituiscono uno sbarramento reale per chi vuole scappare dal villaggio o per chi vuole entrarci o solo avvicinarsi con cattive intenzioni.
Sono dentro un’operazione militare vera, i colpi in canna sono veri, il caldo è vero ed anche la tensione, che mette in circolo l’adrenalina, è vera; lo vedi dagli occhi di questi ragazzi, non battono le palpebre, sono ben aperti e si capisce che sanno bene ciò che sta accadendo o potrebbe accadere. Sono il quinto passeggero del Lince e mi muovo letteralmente incollato al comandante il mio plotone, il maresciallo Gabriele Pinna, detto Teschio; è un mezzofondista e appena può si fa qualche chilometro di corsa, dentro la base, giusto per tenersi in forma! 
Abbiamo avuto un ordine tassativo  “…potete partecipare ma solo rispettando gli ordini dei comandanti a cui siete stati assegnati!”. Per me ed il mio collega Giuseppe Lami va benissimo, sappiamo che siamo i primi reporter civili ad essere qui e seguire un’operazione simile, ci riteniamo dei privilegiati. Poco distante da me c’è Leonardo Arenare, il combat-cam del Reggimento, ha la reflex ma anche il 70/90 e tutto il resto dell’armamentario di un fuciliere paracadutista, ma rispetto agli altri si muove con maggiore indipendenza. Cerco di imitarlo e pian piano il comandante del plotone mi lascia maggiore autonomia, si fida, ha visto che rispetto le regole basi di un’operazione militare. Quando c’è qualche cosa che non devo riprendere perché potrebbe offendere gli abitanti di questo piccolo angolo di mondo, mi lancia uno sguardo e fa passare la mano davanti alla gola: vuol dire taglia, lascia perdere. 


 Giuseppe Lami
Tutto si svolge con grande calma, ufficialmente sono i rappresentanti dell’esercito e della polizia afghana a fare le domande, ad entrare nei locali ma in realtà è evidente che chi tiene la situazione sotto controllo sono i nostri paracadutisti perché è comunque un’irruzione con le armi con il colpo in canna, con gli afghani che mostrano visibili carenze sotto il profilo dell’addestramento e può succedere di tutto. Con il comandante afghano c’è il suo mentor, è del San Marco, si lanciano spesso sguardi di intesa oppure parlano tra di loro a bassa voce, direttamente in inglese o con l’interprete, in mimetica anche lui ma senza stellette e patch, il viso è parzialmente coperto da una kefiah.




 Giuseppe Lami
Andiamo avanti per ore, compound dopo compound. A metà giornata rientriamo alla base, è il momento più delicato perché potremmo essere oggetto di un’imboscata, ormai la nostra presenza è diventata palese e sopra di noi due Apache americani, carichi di razzi coprono i lati della colonna muovendosi alla nostra stessa velocità, vediamo chiaramente il loro cannone a canne rotanti muoversi nella direzione in cui il pilota punta il suo sguardo.

 

Leonardo Arenare
Siamo provati dalla fatica e dai 50° di temperatura esterna, dalla tensione e dalla complessità dell’operazione. Non è stato sparato neanche un colpo, non c’è stato nessun episodio sgradevole, gli afghani hanno arrestato alcuni presunti insorgenti e la nostra task force ha effettuato numerosi controlli biometrici e raccolto ulteriori informazioni. Una volta dentro la FOB Lavaredo la tensione è ormai calata, i ragazzi non perdono tempo, svuotano il Lince, rassettano armi ed equipaggiamento mentre i comandanti di plotone ed i comandanti di squadra vanno a rapporto per il debriefing dal giovane capitano Salvatore Piazza che comanda la compagnia. Io e il mio collega Giusepe Lami, che era nell’altra task force, raggiungiamo la nostra tenda e ci togliamo l’elmetto e la pesante vest con le piastre di protezione balistica. Poi, dopo una rapida visita al container delle docce ci mettiamo al lavoro, a Bakwa c’è una linea wifire satellitare, possiamo spedire foto all’ANSA e postare i primi appunti. Dopo qualche giorno c’è stata un’altra RON e una quarantina di insorgenti hanno tentato un assalto nel cuore della notte, sventato sul nascere dai tiri delle 12.7 e dei Sako dei tiratori scelti. Normale amministrazione qui a Bakwa per i paracadutisti della FOB Lavaredo.
(Antonello Tiracchia)